Solo dopo parecchi mesi Anita ha cominciato a parlare della sua vergogna…come se fosse una dimensione paludosa che l’abitava da sempre ed in ogni momento, così pervasiva che era quasi difficile da vedere, definire, toccare.
Ma non era solo quello a tenerla lontana dai nostri incontri settimanali.
La colpa, la paura, il dolore, la rabbia sono difficili da masticare e tuttavia più a portata di parole e sguardo.
Della vergogna ci si vergogna.
È difficile che qualcuno arrivi a confessare la propria vergogna senza sentirsi sbagliato o indegno. Indegno di esistere.
Eppure ad Anita come ad altri questo passaggio per le fauci della propria inamabilità (dire mi vergogno di parlare, spogliarmi, ringraziare, salutare…) ha aperto le porte ad una nuova esperienza di sè.
Le ha permesso di guardare in faccia, senza accanimento, i suoi automatismi traumatici (sbalzi d’umore, inadeguatezze e smemoratezze varie).
A quarant’anni e un paio di rapporti violenti alle spalle, ha preso in considerazione l’amara e salvifica eventualità di non aver ricevuto nei primi rapporti di amore una sana impronta affettiva sulla quale costruire buone relazioni con se stessa e con gli altri.
È così per molti di noi e per i genitori dei genitori di molti di noi…e per i genitori dei genitori…… delle catene di malamore a volte è difficile trovare l’origine anche perché si perdono nelle preistorie di ognuno.
I legami di attaccamento si formano molto prima che un bambino sappia cosa voglia dire sentirsi amato.
Sono realtà incarnate in vissuti primitivi e preverbali che orientano nel senso della sicurezza o dell’insicurezza i primi rapporti e poi come in uno specchio la relazione con se stessi.
Ricevere informazioni su come il nostro organismo si attiva in maniera primitiva per rispondere ad un ambiente poco sicuro non basta ma aiuta a rompere il segreto e ad avviare un processo di comprensione e cambiamento.
Quando Anna ha collocato la percezione di distacco dalla realtà nella sua storia familiare di trascuratezza e umiliazione, ha iniziato a creare ponti di dialogo ed integrazione che le hanno permesso di pensarsi in maniera più intera e meno imbarazzata.
Non sempre ci sono ricordi delle ferite subite, anche se hanno riguardato fasi più mature dell’esistenza. La parte “pensante” del cervello di solito rimane tagliata fuori dalle risposte “di sopravvivenza”; non è utile; e la coscienza viene in questo modo preservata dalle memorie di dolore.
Il corpo però continua a ricordare a modo suo e a rispondere ad un allarme antico che ancora risuona nella superficie somato-psichica, emotiva e viscerale.
Per reintegrare la parte pensante e riuscire a riconoscere che stiamo reagendo a pericoli che non ci sono più è importante essere accompagnati nell’individuare quali stimoli o situazioni ci attivano in
risposte difensive o “senza scampo”.
“ non capisco perché a sessant’anni non riesco a stare da sola in casa”. Eleonora lo diceva con vergogna e stizza. Ogni settimana tornava a sfidarsi rabbiosamente per poi implorare sconfitta la compagnia del marito o dei figli.
Cosa succedeva da piccola quando i suoi la lasciavano da sola per uscire per nottate intere non lo ricorda, ma poter guardare a quella parte bambina impaurita ed impotente le ha permesso di accedere ad una compassione liberatoria verso se stessa.
Ancora oggi preferisce stare in compagnia ma il terrore della solitudine non controlla più la sua vita di donna adulta.
Dipendenze, comportamenti autolesionisti, disturbi alimentari sono spesso i drammatici esiti dei tentativi di regolazione ed equilibrio di esistenze minate dall’insicurezza. Antidoti al dolore che diventano velenosi destini.
Tanti ragazzi dicono che hanno bisogno di tagliarsi per sentire meno male… le vie chimiche attraverso le quali il dolore fisico smorza quello mentale sono ormai conosciute e mappate in termini di neurotrasmettitori.
La vie di uscita invece non sono tracciate e rimangono diverse per ognuno; passano comunque da un’accoglienza che permette di accedere ad un riconoscimento ed ad un dialogo più costruttivo con la sofferenza. Nonostante la vergogna.
Chi è arrivato fin qui troverà sicuramente prezioso il libro di Janina Fisher
Guarire la frammentazione del sè